La centralità della crisi ambientale con il suo corollario di connessioni e conseguenze socio-economiche, rappresenta il cuore del ragionamento dei movimenti sociali, indigeni, contadini e di quelle comunità, istituzioni locali e paesi che nel corso di questi anni hanno praticato, riuscendoci, la possibilità di costruire «un altro mondo possibile». Non è dunque casuale la scelta di Belem nell’Amazzonia brasiliana quale sede della nona edizione del Forum sociale mondiale.
L’Amazzonia rappresenta uno dei luoghi dove il conflitto tra due idee di mondo contrapposte appare più crudo e decisivo per il futuro. Da un lato multinazionali e grandi istituzioni finanziarie che guardano al polmone della Terra come a una risorsa per fare profitti, dall’altra popoli indigeni impegnati con la forza delle idee e della propria cosmovisione a difendere quel patrimonio indisponibile che chiamano Madre Terra. «Il nostro mondo non è in vendita», si gridava negli anni ’90 e dopo per combattere l’imposizione delle privatizzazioni e degli accordi commerciali. Nell’ultimo decennio i movimenti, specie in America latina, su questi temi hanno ottenuto straordinarie vittorie, «obbligando» istituzioni e governi a mettere al centro dell’agenda la difesa dei beni comuni e la sostenibilità socio-ambientale. I movimenti non hanno solo cacciato multinazionali, promosso manifestazioni, imposto una nuova idea di politica, solidarietà e partecipazione ma hanno costruito democrazia e relazioni sociali dal basso che hanno reso possibili le sole vittorie contro il modello neo-liberista.
A distanza di otto anni dalla sua prima edizione, l’Fsm di Belem dimostra come questo sia ancora l’unico luogo della politica capace di parlare a tutti, di costruire speranze e di rappresentare concretamente l’alternativa al modello capitalista. L’Fsm non è e non sarà una Quinta internazionale come proponevano alcuni intellettuali nel 2005, proprio perché la cultura dell’Fsm non riconosce la presa del potere istituzionale come motore del «cambiamento». Questo non significa negarne l’importanza, né gli effetti positivi che possono avere alcuni governi vicini ai movimenti. Sicuramente il ruolo dei governi di Venezuela, Bolivia ed Ecuador è un fatto molto positivo. Ma è proprio questo a dimostrare come siano i movimenti il vero motore del cambiamento e la base da cui partire per modificare, anche in alto, le cose. Se oggi le costituzioni di questi paesi riconoscono per la prima volta diritti umani come l’acqua e la pluri-nazionalità, se garantiscono non solo l’economia di mercato ma anche quelle comunitaria e pubblica, lo si deve all’azione rifondatrice del movimento dei movimenti, alle sue battaglie, alle sue idee. Lo stesso linguaggio oggi utilizzato dalla politica sarebbe privo di concetti e pratiche quali democrazia partecipativa, difesa dei beni comuni, riforma degli organismi sovranazionali e altri di cui i movimenti sono stati portatori.
Non solo. La trasformazione del lavoro e la crescente marginalizzazione della forma-stato hanno prodotto lo svuotamento e la dissoluzione dello «spazio pubblico». Che i movimenti sono impegnati da anni a ricostruire nel tentativo di ristabilire connessioni e legami sociali, senza cui il capitalismo travolgerebbe tutto e tutti. E’ per continuare a lavorare in questa direzione che il forum di Belem registra la presenza massiccia e attiva dei movimenti indigeni e del loro apporto culturale, indispensabile per una maggiore comprensione della situazione attuale. Sono stati infatti per primi i movimenti indigeni a mettere in discussione non solo il modello di sviluppo ma l’idea stessa di sviluppo inteso solo come crescita del pil. È questo l’elemento di grande novità al centro del forum. Non solo la contrapposizione alla globalizzazione neo-liberista ma la necessità di comprendere finalmente come sia proprio la crescita economica, insieme alla privatizzazione dei servizi di base e dei beni comuni, il principale paradigma attraverso cui il capitalismo si riproduce, accelerando la distruzione ambientale. Il fallimento dell’ultimo vertice G-20 sulla crisi e sul cambio climatico, lo scorso luglio a Sapporo, dimostra l’incapacità di una vecchia politica, in grado solo di riproporre le stesse ricette che hanno provocato il disastro sotto gli occhi di tutti. Discutere l’idea della crescita implicherebbe mettere in discussione il capitalismo e la presunta supremazia dell’occidente. Ecco perché questa critica non arriverà mai dalla vecchia politica.
Belem segna questo salto in avanti nelle nostre analisi e proposte, consapevoli della enormità della sfida ma anche del fatto che non ci sono scorciatoie e che non c’è più tempo da perdere.
di Giuseppe De Marzo – Associazione A Sud
pubblicato su Il Manifesto il 31 Gennaio 2009