Come siamo arrivati a Doha?

Nelle settimane che hanno preceduto l’inizio dei negoziati che annualmente cadono a Novembre, mi sono intrattenuta di tanto in tanto a chiacchierare sul perché sarei andata a Doha. Le persone mi chiedevano “che cosa uscirà da Doha” come se queste negoziazioni sul cambiamento climatico fossero sconnesse dalle precedenti. Un suggerimento può venire dal nome stesso: è la 18° Conferenza delle Parti. Per sapere che cosa aspettarci da Doha, dobbiamo considerarla nel suo contesto; questo richiede sia una comprensione storica che una comprensione dell’attuale panorama politico. Gli sviluppi alla COP 17 l’anno scorso a Durban hanno segnato un nuovo capitolo nella saga del regime climatico, e noi stiamo ancora cercando di decifrare quali potrebbero essere nel lungo periodo le implicazioni legali e politiche. Cercherò con questo articolo di spiegare le principali pennellate di questo grande e complicato quadro, come fa un critico d’arte davanti ad una tela preziosa, proverò a sciogliere i capi principali del prodotto di Durban e offrire qualche prospettiva per Doha e oltre.

Se siete di fretta e vi manca tempo, la mia conclusione di base è che mentre attivisti della giustizia climatica potrebbero vedere ad un livello più tecnico alcune vittorie e molte perdite a Doha, nei termini del grande disegno, siamo molto e pericolosamente vicini a vedere una doppia parodia della giustizia- non aver fatto abbastanza per evitare una catastrofe ambientale E la responsabilità per questa inazione scaricata sul mondo in via di sviluppo, nonostante le responsabilità storiche e il bisogno di questi Stati di alleviare la povertà. Sperò tuttavia che continuerete a leggere…

La storia conta

La Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC), adottata insieme alla Convenzione sulla Biodiversità (CBD) e la Convenzione contro la Desertificazione (CCD) al Summit sulla Terra di Rio ’92 ha sperimentato per prima un approccio di cornice agli accordi multilaterali in materia ambientale. È stata una Convenzione vivente fin dalla sua entrata in vigore nel 1994. Come suggerisce il nome, è intesa come una cornice base sulla quale costruire. Ha degli obiettivi portanti- contenuti nell’Art. 2- di mantenere i livelli di gas serra ad un livello sicuro (at a safe level), e impegni fondamentali- contenuti nell’Art. 4- così come principi portanti impliciti ed espliciti, che sarebbero andati a caratterizzare il lavoro successivo richiesto dai Protocolli e altri risultati che si sono susseguiti nel tempo. Per esempio la Convenzione chiaramente differenzia tra i paesi dell’ Annesso I (mondo sviluppato) e paesi non dell’Annesso I (mondo in via di sviluppo), sottolineando come questi abbiano responsabilità comuni ma differenziate (CBDR) e capacità conseguentemente diverse nell’ affrontare il cambiamento climatico. Questa struttura è costruita sulle basi dei principi di diritto ambientale internazionale come il principio per cui chi inquina paga, il principio di precauzione e la responsabilità storica. Gli impegni includono, tra le altre cose, la mitigazione delle emissioni di gas serra (GHG), l’adattamento al cambiamento climatico, il trasferimento di tecnologia, lo sviluppo delle competenze e il supporto finanziario addizionale per i paesi in via di sviluppo.

Nel 1995, il Mandato di Berlino iniziò il processo di negoziazione di un Protocollo alla Convenzione. Il Protocollo di Kyoto nel 1997 aggiunge alla cornice gli obiettivi necessari e le scadenze per raggiungere le riduzioni di emissioni (benché questi non fossero abbastanza ambiziosi) e in questo modo conferma le differenziazioni stabilite nella Convenzione. Il Protocollo, benché segnato dall’assenza dell’emittente storico, gli Stati Uniti, rimane l’unico strumento legalmente vincolante con specifici obiettivi di riduzione delle emissioni. Come già detto, questi impegni erano bassi- ma poiché il Protocollo lavora avendo alla sua base fasi di impegno (commitment periods) (il primo decorso dal 2008 al 2012 e il secondo oggetto di dibattito qui a Doha), gli obiettivi potrebbero essere alzati con il tempo. Che stiamo assistendo ad un fallimento nell’impegnarsi per una seconda fase di impegni significativa rivela più sulla volontà politica che non sull’architettura legale.

Poiché il Protocollo non si occupa di tutte le emissioni, ma solo delle emissioni dei paesi che sono parti del medesimo, la comunità internazionale doveva trovare un modo per integrare i suoi sforzi. Così hanno fatto nel 2007 a Bali, istituendo un gruppo di lavoro ad hoc sull’azione cooperativa di lungo termine (AWG-LCA) per lavorare su un secondo binario di negoziazioni a fianco del gruppo di lavoro ad hoc del Protocollo di Kyoto (AWG-KP). L’azione cooperativa di lungo termine (LCA) è stata creata come parte del Piano di Azione di Bali nella decisione UNFCCC 1/CP.13 per coprire le emissioni che Kyoto non considerava con sforzi comparabili (“comparable efforts”), ma comprendeva anche previsioni sull’adattamento, finanza e trasferimento di tecnologia. Il principio sulle responsabilità comuni ma differenziate è stato riaffermato in questa decisione, con molti che hanno fatto riferimento alla differenziazione delle responsabilità tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo come il programma di protezione di Bali (the “Bali Firewall”).

Questo programma di protezione è rimasto saldo fino all’ultima notte della COP17 nel 2011, quando la decisione di Durban 1/CP.17 ha stabilito un nuovo tragitto per le negoziazioni: il gruppo di lavoro ad hoc per la Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP), che dovrà essere decisa entro il 2015 ed entrare in vigore nel 2020, con l’intento di avere un’applicazione universale (ovvero, tutti i Paesi, senza rilevanza per la loro attuale categorizzazione come Annesso I/non Annesso I, sarebbero vincolati ad essa). Questo è stato un punto focale nella controversia e contesa a Durban, ed è solo stato il risultato di qualche manovra molto strategica da parte dell’Unione Europea, che ha incluso il distaccamento delle piccole isole (AOSIS) e dei paesi meno sviluppati (LDCs) dal più grande gruppo di paesi in via di sviluppo (G77). India, Venezuela, Bolivia, Nicaragua, Pakistan, Egitto e altri hanno sollevato appassionate contestazioni, ma alla fine la decisione è passata e noi dobbiamo così tentare di capire che cosa potrebbe significare essa per il regime climatico nel suo intero.

Menu legale

Come mostrano le divergenti opinioni e le assunzioni implicite nei rapporti dei paesi, c’è molta ambiguità sul lavoro dell’ADP. Quest’ambiguità creativa tornerà presto a tormentare le parti, o nei giorni ed ore finali della COP21 nel 2015, oppure negli anni successivi di interpretazione e implementazione. L’ambiguità risiede naturalmente nel linguaggio di Durban- quello sforzo durato undici ore di giungere ad un accordo- qui sotto riportato.

Decisione 1/CP.17 della Convenzione Quadro sul Cambiamenti Climatici

2. Also decides to launch a process to develop a protocol, another legal instrument or an agreed outcome with legal force under the Convention applicable to all Parties, through a subsidiary body under the Convention hereby established and to be known as the Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action;

Cosa significa esattamente un “risultato convenuto con forza legale”? Secondo molti esperti giuridici possiamo interpretare questa clausola delega in due modi. Se uno legge “sotto la Convenzione” come parte qualificante l’enunciazione “risultato convenuto con forza legale” allora il risultato dovrebbe essere un protocollo, un emendamento alla Convenzione o al Protocollo di Kyoto, o un emendamento dei suoi annessi. Comunque, se l’enunciazione “sotto la Convenzione” viene letta come qualificativa dell’enunciato “protocollo, un altro strumento legale, o un risultato convenuto con forza legale” allora il risultato potrebbe essere una decisione della Conferenza delle Parti che abbia forza legale nel diritto nazionale, piuttosto che nel diritto internazionale. Così i rapporti dei paesi che fanno riferimento ad un protocollo nel 2015 potrebbero essere prematuri. Infatti, come Dan Bodansky[1] ha sottolineato, il mandato per le negoziazioni è più debole perfino del mandato dell’Assemblea Generale che è culminato nel 1992 nella Convenzione stessa, e il “risultato convenuto con forza legale” non ha precedenti nel diritto internazionale.

In ogni caso, quali sono i vantaggi o gli svantaggi delle varie interpretazioni di questa formulazione? Certo, le richieste che il risultato finale sia un Protocollo stanno prendendo slancio e si potrebbe assumere che un protocollo sia un esito desiderabile per il peso che esso porta con sé. Se dovessimo adottare una visione spettrale del diritto ambientale, allora un trattato (che contiene specifiche obbligazioni) è decisamente nel lato dell’ hard law. Un tale trattato, quale è quello di Kyoto, necessariamente costringe il diritto nazionale a sincronizzarsi con il diritto internazionale, per adempiere alle obbligazioni che si sono assunte. Al contrario, le decisioni della Conferenza delle Parti, quali il Piano di Azione di Bali- mentre possono tecnicamente considerarsi decisioni legali, pendono più verso la fine dello spettro chiamata soft law. Il dibattito su quale sia il modello più effettivo tra hard e soft law è profondo e lo riserverò per un altro giorno, qui è sufficiente dire che soft law può forse essere più ambizioso mentre hard law può avere una conformità tecnico/legale. Certo, questo dipende anche da che cosa intendiamo per effettivo- nel caso della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico, il punto di riferimento dovrebbe essere l’Articolo 2. Se l’obiettivo di stabilizzare i livelli di emissioni dei gas serra in modo tale da evitare “pericolose” interferenze all’interno del sistema climatico entro un certo periodo di tempo che permetta l’adattamento e eviti di minacciare lo sviluppo economico non è raggiunto, allora la UNFCCC è infettiva. “Perché si è arrivati a questo?” è invece un’altra domanda, costipata di storie di mala-fede, circostanze, potenti lobby, neocolonialismo e interessi particolari. Qualcun altro vi racconterà questa storia.

Ritornando alle difficili domande che la decisione 1/CP.17 pone, vediamo che la strada da percorre sarà un tragitto difficile. Per esempio, la decisione raccomanda di chiudere il gruppo di lavoro ad hoc sull’azione cooperativa di lungo termine (AWG-LCA) a Doha. È vero, l’azione cooperativa di lungo termine (LCA) è per definizione ad hoc e dovrebbe chiudere, ma certamente non prima di aver completato il suo lavoro? Il problema risiede nel come e dove si debba progredire con le varie questioni che sono state oggetto di lavori sin dal 2007 senza perdere il progresso fino ad ora raggiunto. Le relazioni delle parti indicano che i paesi in via di sviluppo vorrebbero vedere il lavoro completato; non dimenticato nelle nebbie di una nuova piattaforma di lavoro. Forse, in un linguaggio meno colloquiale, il Mandato di Durban crea anche una tensione con il Protocollo di Kyoto. Dallo stato attuale dei giochi, le Parti sembrano volersi sbarazzare dei loro impegni sotto il Protocollo di Kyoto- con solo l’Unione Europea e l’Australia già impegnati con deboli obiettivi per il secondo periodo 2012-(2017/2020)- e la Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP) offre una scusa ragionevole. O piuttosto, interviene offrendo una distrazione e un ritardo invece che fornire un percorso verso un trattato ambizioso globale. E così non è molto chiaro come la Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP) riuscirà a lavorare sulla sua agenda pre-2020 senza minare il Protocollo. I negoziati che si stanno tenendo a Doha in questi giorni dovrebbero chiarire ulteriormente queste tensioni e ambiguità. Più probabilmente cammineranno con estrema attenzione sulla fune delle relazioni internazionali, che- estremamente effettiva nel mantenere le apparenze e nel garantire che commercio , diplomazia e politica continuino il loro corso- è del tutto infettiva nell’affrontare la delicata questione con una sembianza almeno di quell’ urgenza di cui c’è ora bisogno.

Sfortunatamente 1/CP.17 non fornisce raccomandazioni, non suggerisce a che cosa dovrebbero assomigliare l’obiettivo o il contenuto di un tale risultato (benché essendo un risultato sotto l’ala della Convenzione potremmo presumere che adotterà gli obiettivi della Convenzione stessa). Il risultato potrebbe essere prescrittivo, con obiettivi, programmi e meccanismi per rispettare e raggiungere questi obiettivi, come è stato per il Protocollo di Kyoto; potrebbe essere un risultato facilitatore, come gli Accordi di Cancun, con un sistema di promesse e revisioni integrato da una seria misurazione, rendicontazione e verificazione; o potrebbe essere un misto (precettivo in alcuni elementi, facilitatore in altri).

È molto bello dire che la Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP) potrebbe portare frutto, ma è molto più urgente domandarci che cosa dovrebbe fruttare. Una delle maggiori critiche al modo in cui la Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP) è stata creata, critica che permane mentre questa sta venendo elaborata, è che il mondo sviluppato stia rinnegando i propri impegni precedentemente assunti. Che l’idea della responsabilità storica per le emissioni, e la rispettiva azione che ciò dovrebbe comportare, siano a quanto pare dimenticate, è un’ulteriore prova per molti paesi in via di sviluppo che le parti del mondo sviluppato non siano serie nel affrontare la crisi climatica. È visto invece come un ingiusto slittamento di questo fardello sui paesi del cosiddetto global South. Un giusto risultato della Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP) dovrebbe essere basato sul principio di equità, e dovrebbe essere impregnato con un senso di urgenza e ambizione. Questi ultimi due punti vanno mano nella mano. Mentre la portata della sfida diventa sempre più grande, lo forzo per affrontarla deve essere in modo corrispondente adatto e continuare a crescere. Che questo sforzo venga sproporzionatamente assunto dal mondo in via di sviluppo è invece una doppia ingiustizia: ignorare la storia e le circostanze e priorità dell’attuale sviluppo, chiedendo alle parti di mondo più vulnerabili di addossarsi il peso di questo fardello sulle loro spalle, benché poco abbiano fatto questi paesi per causare il problema. Mentre la Piattaforma di azione avanzata di Durban (ADP) avanza verso la scadenza fissata per il 2015, la triste realtà è che questo senso di urgenza potrebbe essere troppo forte per alcuni stati particolarmente vulnerabili (piccole isole e paesi meno sviluppati, LDCs), ed essi, per disperazione, potrebbero fratturare i paesi in via di sviluppo del gruppo G77 e forse perfino i loro stessi gruppi per giungere ad un qualsiasi risultato. Fortunatamente rimangono ancora 3 anni.

[1] http://opiniojuris.org/2011/12/12/evaluating-durban/

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