Battaglie per la protezione sociale in Africa

La protezione sociale è diventata un tema obbligato nei dibattiti elettorali in Africa. In Costa d’Avorio e nella Repubblica democratica del Congo, la Costituzione e la legge pongono addirittura l’assicurazione malattie come un obiettivo prioritario. Tuttavia, il boom dell’economia informale e la debolezza politica e finanziaria degli stati ostacolano il raggiungimento di risultati concreti. Il che non impedisce comunque a esperti e associazioni di riflettere per agire.

Alla conclusione del primo referendum democratico mai organizzato in questo paese in quasi quarant’anni, il 15 dicembre 2005, la Repubblica democratica del Congo (Rdc) ha inserito nella nuova Costituzione la garanzia della salute e della sicurezza alimentare. In precedenza, il presidente Laurent Gbagbo aveva fatto sancire dal Parlamento ivoriano, nell’ottobre 2001, la creazione di un sistema di assicurazione malattie universale (Amu). Quando, appena un anno dopo, la Costa d’Avorio è scivolata in un conflitto di lunga durata, la creazione dell’Amu è stata rimandata a una data imprecisata. Il Ruanda è stato il secondo paese africano a impegnarsi su questo percorso. Tuttavia, l’Amu ruandese, votata dal Parlamento, non è ancora operativa in quanto le autorità locali sono impegnate in consultazioni con i partner esterni, in particolare l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

L’art. 22 della Dichiarazione universale dei diritti umani, che consacra il “diritto di ogni essere umano alla sicurezza sociale, indica infatti che gli obblighi degli stati in materia sociale richiedono “lo sforzo nazionale” ma anche la “cooperazione internazionale”. In Africa, “soltanto il 5-10% della popolazione attiva gode di una copertura sociale”, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), che nota un degrado costante della situazione nell’arco degli ultimi vent’anni. L’Organizzazione sottolinea che “quasi l’80% della popolazione non ha accesso alle cure mediche di base. In media, le spese sanitarie rappresentano il 4,3% del prodotto interno lordo (Pil) degli stati del continente, contro il 6,4% dell’Asia, l’8,8% dell’America latina, il 16,6% del Nord America, il 24,8% dell’Europa.

“Anche se alcuni paesi arrivano a dedicare alla salute il 9% del loro bilancio nazionale come chiede l’Oms – ricorda il dottor Charles Raymond Dotou, consulente presso le Nazioni unite – rimane sempre il problema di un impiego adeguato delle risorse”. Nella maggior parte dei paesi africani, l’economia si basa su un settore informale ipertrofico, comprensivo di accordi sotto banco e lavoro nero, che ostacola l’attuazione di un sistema generale di protezione sociale. A beneficiarne, sono soltanto i lavoratori dipendenti e i funzionari – che rappresentano in media appena il 10% della popolazione attiva dei vari paesi. La maggior parte degli economisti e delle istituzioni finanziarie, negli anni 1970, riteneva che lo sviluppo avrebbe comportato automaticamente una forte espansione del settore formale (lavoro dipendente) e una generalizzazione dell’assicurazione malattie. Pronostici smentiti dai fatti.

L’insuccesso delle politiche di aggiustamento strutturale ha incrementato il settore informale dell’economia dal 1980 al 1999. Con la crisi economica e poi l’aggiustamento strutturale, fa rilevare uno studio del ministero francese degli affari esteri, sono venuti alla luce gravi problemi di carattere economico, amministrativo e finanziario che hanno reso più fragile la situazione della protezione sociale. I suoi costi sono aumentati, mentre il livello di reddito e a volte il numero stesso dei lavoratori del settore pubblico sono rimasti stazionari e, nel complesso, il numero dei salariati è diminuito a vantaggio dei settori tradizionali e informali. Inoltre, la capacità d’intervento finanziario dei vari stati è stata ridotta dalla crisi del debito, dal crollo dei prezzi delle materie prime, dalla scarsità delle entrate fiscali, dalla cattiva gestione, e le politiche di austerity propugnate dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale e Fondo monetario internazionale [Fmi], Unione europea). Le infrastrutture sanitarie (ospedali, ambulatori, medici di base, ecc.) si sono molto degradate, intaccando gravemente la fiducia che le popolazioni potevano riporre nella validità del servizio pubblico.

La tutela degli esclusi, un tentativo fallito: molto spesso, le iniziative portate avanti in questo settore si basano allora sulla solidarietà internazionale, tramite le grandi organizzazioni umanitarie, le organizzazioni non governative (Ong), come pure le principali agenzie specializzate dell’Onu, con l’Oms in prima fila.

I ceti urbani agiati fanno ricorso all’assicurazione privata. I poveri, con minor possibilità di prendersi cura della prevenzione, spendono soltanto quando il bisogno si fa pressante. Allora fanno ricorso alla solidarietà tradizionale (la cosiddetta assicurazione comunitaria): risparmio, tontina, doni, mutuo soccorso familiare, ecc. Tuttavia, i sistemi “tradizionali” di tutela sociale offerti a livello delle comunità si trovano in gravi difficoltà di fronte alla “modernizzazione” delle economie (urbanizzazione, mobilità geografica, individualismo crescente), alla crescita demografica e al persistere di crisi economiche e politiche (abbassamento del tenore di vita e insicurezza).

Il Gabon figura fra i rari paesi africani che vivono una situazione relativamente soddisfacente per quanto riguarda la copertura sociale.Questa posizione privilegiata si spiega grazie alla presenza di industrie estrattive (petrolio) e forestali ad elevato tasso di redditività. Questi due settori figurano fra i principali bacini di occupazione del paese. Secondo il ministero degli affari sociali del Gabon, il 61% della popolazione beneficerebbe di qualche forma di tutela sociale.

Nel settore sanitario si riconoscono tre livelli: la distribuzione gratuita di medicinali, la presa a carico delle spese di ricovero ospedaliero e l’accesso a un fondo che consente le evacuazioni sanitarie (Evasan) all’estero, verso ospedali meglio attrezzati, soprattutto in Francia.

Il degrado della tutela sociale nel continente nero in generale si pone in clamoroso contrasto con le ambizioni dichiarate dai giovani stati africani nei primi anni dell’indipendenza. I nuovi poteri avevano fatto dello stato sociale il cuore stesso del loro programma. Tale rivendicazione, d’altronde, aveva innervato la guerra contro l’amministrazione coloniale: le lotte sindacali nell’Africa francofona richiedevano l’estensione delle prestazioni sociali di cui le metropoli facevano beneficiare i loro quadri espatriati. Si era registrato qualche successo, soprattutto a favore dei lavoratori urbani indigeni. Di conseguenza, osserva il sociologo Olayiwola Erinosho, il grave insuccesso dei governi africani nella sfera della tutela sociale ha indubbiamente intaccato il loro credito e la loro legittimità politica agli occhi delle popolazioni locali.

Nel 1987, i ministri della sanità del continente nero hanno tentato di reagire adottando l’iniziativa di Bamako (Mali), sotto gli auspici dell’Oms e dell’Unicef. Sino ad allora l’Oms aveva promosso l’idea di sistemi sanitari finanziati dagli stati e gratuiti per i pazienti. L’indebolimento degli stati e la cattiva gestione hanno indotto ad abbandonare questa strategia. A questo punto l’iniziativa si prefigge l’obiettivo di assicurare al complesso della popolazione l’accesso alle cure sanitarie di base a prezzi abbordabili, di ridurre al minimo i costi e di ripristinare la fiducia degli utenti nei servizi della sanità pubblica, migliorando la qualità delle prestazioni e delegando il potere decisionale ai livelli inferiori, soprattutto alle comunità locali. I risultati non sono stati all’altezza delle aspettative. Da una parte l’iniziativa, secondo l’Oil, soffre per il fatto di essersi rinchiusa all’interno del sistema attuale con rari tentativi di integrarsi in una politica globale. Manca una visione d’insieme che tenga conto della diffusione della grande povertà e delle dimensioni del settore informale. Inoltre, l’assenza di un dialogo sociale e di ascolto delle proposte associative ostacola qualsiasi tentativo.

Il fatto che i governi non abbiano il controllo delle politiche macroeconomiche, decise sotto l’influenza delle istituzioni finanziarie internazionali, limita i loro margini di manovra e li imprigiona in una filosofia liberista che tarpa le ali ai pubblici poteri. Inoltre, le società e le economie rimangono estremamente vulnerabili agli choc destabilizzanti come l’insicurezza alimentare e gli effetti di alcune pandemie come l’Aids.

Il divario tra le popolazioni che hanno una tutela sociale e quelle che ne sono prive si accresce continuamente. Secondo Dotou, l’assenza di dati attendibili e di valutazioni sufficienti impedisce di pensare a una riforma efficace della tutela sociale. “La maggior parte delle istituzioni internazionali concede finanziamenti alla cieca”, ci dice, sottolineando l’assenza di coordinamento. E così, laddove la Banca mondiale cerca di incoraggiare l’assicurazione privata, l’Oms e l’Oil tentano di sostenere le mutue. Per esempio, l’Oil ha attuato un programma dal titolo Strategie e tecniche contro l’esclusione sociale e la povertà (Step). Volendo essere uno strumento per lottare contro l’esclusione sociale e per estendere la tutela sociale ai gruppi esclusi nel mondo, Step dà un contributo particolare all’attuazione di microprogetti di mutue della sanità, in quasi tutti i paesi africani. Molte di queste strutture sono venute alla luce in settori estremamente diversi, dal trasporto stradale, alla pesca su scala artigianale; dalle cooperative agricole, fino all’edilizia e alle opere pubbliche.

Secondo la maggior parte degli osservatori, il potenziamento della sicurezza sociale in Africa passa attraverso la ricerca di una complementarietà tra i diversi sistemi pubblici e comunitari, le assicurazioni e le mutue. E così quando il governo di Gbagbo ha fatto adottare la legge sull’Amu nell’ottobre 2001, l’Oil ha espresso alcune riserve. “La principale preoccupazione manifestata dal Bit a proposito dell’Amu era quella di vedere questo nuovo sistema di tutela sociale, per quanto generoso, distruggere le strutture esistenti, senza aver prima dimostrato la propria validità”, ci ha riferito uno degli esperti che hanno esaminato quel dossier. Secondo gli analisti internazionali, l’Amu ivoriana avrebbe richiesto uno stanziamento di 400 miliardi di franchi Cfa (600 milioni di euro) all’anno, distribuiti fra i vari attori sociali, in primo luogo lo stato.

Tale bilancio avrebbe richiesto inevitabilmente un importante contributo diretto e costante da parte dei poteri pubblici, soprattutto per compensare l’assenza di contributi da parte degli assicurati con ridotte capacità finanziarie, sia fra le popolazioni rurali senza reddito fisso che fra i cittadini disoccupati o che sopravvivono grazie all’economia informale. Orbene, simili spese sono incompatibili con la dottrina del Fmi in materia di gestione del pubblico denaro nei paesi sottoposti alle priorità neoliberiste (piani di aggiustamento strutturale, ecc.) come è appunto il caso della Costa d’Avorio. “E’un circolo vizioso”, come sottolinea Lambert Gbossa, direttore dell’ufficio dell’Oil a Kinshasa, capitale della Rdc: il dibattito sulla tutela sociale in Africa “dovrebbe travalicare il ristretto ambito originale in cui è sempre stato inquadrato, per consentire di affrontare con una visione più generale i problemi nuovi che sono al tempo stesso lo sviluppo della povertà, l’estensione del settore informale, il legame tra tutela sociale e occupazione, la capacità di organizzazione delle popolazioni”.

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